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  • 27 luglio 2020

Intervista con La Repubblica

Intervista con Fabio Panetta, Membro del Comitato esecutivo della Bce, condotta da Tonia Mastrobuoni e pubblicata il 27 luglio 2020

L'Ue ha varato un Recovery fund da 750 miliardi di euro e un Bilancio pluriennale ambizioso. Lei cosa pensa dell’accordo?

Può essere un punto di svolta. Se tra vent’anni guarderemo indietro, questi mesi potrebbero apparire come l’inizio di una nuova fase di integrazione europea. Il varo del Recovery Fund è una decisione necessaria per rispondere alle sfide economiche che l’Europa ha di fronte. Ma è soprattutto una decisione che denota la consapevolezza, anche da parte dei Paesi inizialmente meno inclini all’accordo, della necessità e dei benefici – per tutti – di una risposta comune.

Se le decisioni delle scorse settimane rappresenteranno davvero una svolta, a questo punto dipende dalle politiche economiche che saranno adottate dai vari Paesi. L’Italia ha una grande responsabilità. Abbiamo avuto una importante apertura di credito – in tutti i sensi – da parte dell’UE. Ora dobbiamo mostrare di saper utilizzare i fondi europei per sciogliere i nodi strutturali della nostra economia.

Lei ha scritto che una risposta fiscale europea inadeguata avrebbe messo a rischio il mercato unico. Secondo lei qualcuno dei Paesi membri - i cosiddetti "frugali" ad esempio - ha sottovalutato questo pericolo?

Nella trattativa europea mi ha colpito il fatto che, dopo una discussione molto accesa, tutti i leader siano tornati a casa dicendo “Abbiamo vinto!” La cosa strana – ma solo in apparenza – è che tutti hanno ragione. Tutti hanno vinto, perché tutti i Paesi possono trarre beneficio da una risposta comune, che favorisca la ripresa dell’economia europea. È come se agendo insieme avessimo generato una sorta di “dividendo europeo”.

L’economia dell’eurozona è interconnessa dal punto di vista commerciale e finanziario, e la ripresa di una sua parte si riflette positivamente sulla crescita e sull’occupazione nell’intera area. I Paesi orientati all’export come Germania e Olanda sono consapevoli dei vantaggi della moneta unica. In presenza di uno shock esterno, non derivante da politiche imprudenti, è nell’interesse comune contribuire al rilancio dell’economia europea.

Il quadro geopolitico, il neoprotezionismo degli Usa e le tensioni con la Cina, ma anche le nazionalizzazioni in Europa, non fanno pensare che il mercato unico europeo vada preservato ancora più che in passato?

Già prima della pandemia era chiara la crisi del multilateralismo, per effetto di politiche adottate fuori dall’UE. La tendenza a impostare le relazioni internazionali su rapporti bilaterali avvantaggia le aree economiche più forti. In questo contesto l’integrazione europea può consentire di far sentire la voce di Paesi che, da soli, in un ambito globale sarebbero poco rilevanti. Ma dobbiamo costruire un’area economica in cui tutti siano in grado di marciare a velocità simili.  

Qualcuno intravede il pericolo che dalla crisi possano emergere una Germania piú forte e un'Europa più diseguale. Lei vede questo rischio dopo l’accordo sul Recovery Fund? 

Anche i Paesi meno colpiti dalla pandemia e che avrebbero avuto i mezzi non solo per contrastare la crisi, ma anche per trarne vantaggio – e penso proprio alla Germania – si sono fatti carico di un’azione congiunta. Senza il motore franco-tedesco non ci sarebbe stato il Recovery Fund. La Germania, in passato riluttante ad adottare politiche comuni di rilancio, non si è concentrata su interessi nazionali di breve periodo. Al contrario, ha spinto per adottare politiche in grado di attenuare le divergenze economiche tra Paesi. Adesso serve una risposta all’altezza da parte dei Paesi economicamente meno forti e più colpiti dalla crisi.

Come giudica il ruolo di Angela Merkel, accusata spesso in passato di aver agito "too little, too late" per aiutare l’Europa?

È stato fondamentale. La svolta europea è avvenuta in due momenti chiave. Il primo è l’intervento tempestivo della Bce, che ha evitato una crisi dirompente e ha concesso il tempo necessario perché maturasse una soluzione europea. Il secondo è l’annuncio del Recovery Fund da parte della cancelliera Merkel e del presidente Macron. E non dimentichiamo il ruolo della Commissione europea, che ha formulato la proposta di Recovery Fund poi uscita sostanzialmente intatta dal successivo dibattito. Questi passaggi sono avvenuti nell’ambito di istituzioni europee – la Bce, il Consiglio, la Commissione – superando l’approccio intergovernativo seguito durante la crisi del debito sovrano. È stata data una risposta europea a un problema europeo. E sta funzionando.

Nel Recovery Fund l'equilibrio tra trasferimenti e crediti è stato fortemente rivisto in favore dei secondi. Secondo lei è un problema? 

Alla fine i 750 miliardi sono rimasti. Certo, alcuni volevano più trasferimenti, altri più prestiti. Ma ricordiamoci dove eravamo quattro mesi fa. Un risultato come quello dei giorni scorsi era allora impensabile. È andata bene.

La Commissione Ue emetterà un enorme volume di debiti. Anche questa è una svolta epocale?

Si, un’emissione di queste dimensioni è un cambiamento fondamentale. È un avanzamento verso l’unione dei mercati dei capitali, e renderà gli investimenti in euro più appetibili per gli operatori internazionali. In passato gli afflussi di capitali verso l’area dell’euro riguardavano soprattutto pochi Paesi e di fatto accentuavano le divergenze. Questa volta non succederà perché gli afflussi di capitali potranno orientarsi verso i titoli emessi in comune, i cui proventi saranno utilizzati per finanziare l’economia dell’intera area dell’euro. L’eurozona sta diventando più normale.

All'Italia arriveranno molti soldi. Ma tutti i partner si aspettano riforme. Quali sono le priorità secondo lei?

L’economia italiana ristagna da decenni. Abbiamo mancato l’appuntamento con la rivoluzione tecnologica, non abbiamo investito a sufficienza nella formazione di capitale umano. Abbiamo accumulato ritardi e debolezze che conosciamo bene. Ora abbiamo l’opportunità di utilizzare i fondi europei per modernizzare l’economia, per renderla più rispettosa dell’ambiente, più digitale, più inclusiva. Possiamo attenuare – con la crescita e il lavoro, non solo con i sussidi – le diseguaglianze emerse negli anni scorsi. Una sfida cruciale è quella del Mezzogiorno. Fatico a immaginare uno sviluppo equilibrato di una economia in cui un terzo della popolazione ha un reddito pro-capite pari alla metà di quello del resto del paese e intere regioni sono afflitte da disoccupazione diffusa e carenze di infrastrutture. In questi giorni si sta discutendo la possibilità di introdurre al Sud una fiscalità di vantaggio: si tratta di un obiettivo ambizioso, su cui in passato ho riflettuto con i colleghi della Banca d’Italia. Andrà valutato in ambito sia nazionale sia europeo per le sue implicazioni sulla finanza pubblica e sulla concorrenza. Ma può essere di importanza fondamentale per rilanciare l’economia meridionale.

I soldi del Recovery Fund non arriveranno prima del 2021. Nel frattempo sarebbe giusto che l'Italia chiedesse fondi al MES per affrontare le conseguenze del Covid?

Credo sia giusto avere un dibattito oggettivo e informato circa la convenienza a utilizzare le risorse a basso costo rese disponibili dall’Europa, tra cui quelle offerte dal MES per spese sanitarie; soprattutto alla luce dei rischi, che ancora sussistono, di una seconda ondata di infezioni. Il MES e la Commissione hanno reso disponibili sui loro siti Internet tutte le informazioni relative alle condizioni offerte dal MES. Sono informazioni pubbliche, che possono essere analizzate da esperti, che non mancano nelle strutture dello Stato italiano. Quando saranno chiarite, una volta per tutte, le implicazioni di un ricorso al MES, sono sicuro che il Governo e il Parlamento faranno la scelta giusta.

Che effetto hanno avuto le misure varate dalla Bce per affrontare la paralisi da coronavirus?

Hanno evitato un’asfissia finanziaria, sostenendo i consumi e gli investimenti di famiglie e imprese. Se avessimo tollerato un inasprimento delle condizioni finanziarie, la crisi sarebbe stata più grave di quella, già gravissima, che prevediamo per quest’anno. Con strascichi imprevedibili. Siamo intervenuti per evitare una frammentazione finanziaria nell’area dell’euro e salvaguardare il meccanismo di trasmissione della politica monetaria. Abbiamo così protetto la capacità produttiva dell’economia europea.

Senza le nostre misure, la pandemia avrebbe compresso l’inflazione ben al di sotto del 2%. Stimiamo che gli interventi decisi da marzo – sia i programmi di acquisto sia le operazioni di rifinanziamento – innalzeranno cumulativamente, entro la fine del 2022, l’inflazione di 0,8 punti percentuali e il Pil di 1,3 punti. Stiamo osservando una normalizzazione dei costi di finanziamento dell’economia: si tratta di una condizione necessaria per evitare che la crisi si acuisca.

Quindi l'eurozona è fuori pericolo?

È presto per dirlo. Nell’area dell’euro il Pil nel primo trimestre ha registrato una contrazione molto forte, del 3,6% sui tre mesi precedenti. Nel secondo trimestre andrà peggio, la contrazione sarà maggiore. Certo, i dati recenti indicano progressi: in maggio la produzione industriale è cresciuta del 12 per cento, le vendite al dettaglio del 18; anche gli indicatori qualitativi, quali l’indice PMI, stanno migliorando. Ma sono miglioramenti da valutare con cautela, perché costituiscono un rimbalzo prevedibile dopo la precedente, rovinosa caduta dell’attività economica e perché riflettono l’intervento massiccio delle politiche economiche. E perché non si discostano dal quadro sottostante le nostre previsioni. Non bastano quindi a lasciarci soddisfatti.

L’attività produttiva rimane lontana dai livelli pre-crisi, e in base alle nostre stime tornerà su quei livelli non prima della fine del 2022. Vi è poi molta incertezza sulle prospettive dell’economia e dell’occupazione. Infine, la crescita è disomogenea: l’ultima cosa che deve succedere è che si accentuino le divergenze tra Paesi, poiché in tal caso l’attuazione della politica monetaria diverrebbe assai difficile. E non dimentichiamo le incertezze su come si evolverà la pandemia: in piú Paesi vi è il rischio concreto di una seconda ondata. Finché non saremo certi che gli effetti della crisi saranno stati riassorbiti sarà necessario continuare a fornire un forte stimolo monetario, per consolidare la ripresa e risollevare così l’inflazione.

Ma una seconda ondata, un secondo lockdown sarebbe sostenibile per l’eurozona?

Non so fare previsioni su un fenomeno che non ho mai vissuto e che mai avrei immaginato di vivere. È però importante sottolineare che le autorità sanitarie hanno accumulato esperienze preziose per gestire eventuali nuove emergenze. Inoltre, i Paesi dell’eurozona hanno affrontato la pandemia con decisione ed efficacia. Anche l’Italia, nonostante che non abbia potuto beneficiare delle esperienze altrui, essendo stata il primo paese europeo fortemente colpito.

La Bce potrebbe rinunciare a sfruttare tutta la potenza di fuoco del Pepp, come ha suggerito qualche membro del Consiglio della Bce? 

Quando abbiamo approvato, a giugno, l’ampliamento del programma di acquisti Pepp, il nostro quadro previsivo non era diverso da quello attuale. Mi aspetto quindi che utilizzeremo l’intera dotazione del programma, a meno che non emergano forti sorprese positive. Possiamo sfruttare la flessibilità prevista dal Pepp, modificando la distribuzione degli acquisti nel tempo, tra diverse categorie di titoli o tra Paesi; finora lo abbiamo fatto in misura limitata, in quanto i nostri interventi sono stati efficaci. Il programma sta funzionando bene, e non vedo ragioni economiche per cambiare le nostre decisioni o la nostra azione.

Christine Lagarde ha sostenuto che le operazioni di rifinanziamento Tltro stanno funzionando e che il credito sta arrivando alle imprese. Può spiegarci cosa sta succedendo alle banche, che erano collassate per prime nella crisi finanziaria?

Dobbiamo ricordarci che la crisi non nasce dal settore finanziario, ma da un’emergenza sanitaria. Inoltre la Bce è intervenuta con tempestività e con misure molto potenti. Oggi concediamo finanziamenti alle banche a tassi negativi che possono scendere fino a -1%, ma a una condizione: che le banche a loro volta utilizzino quei finanziamenti per dare credito a famiglie e imprese. Si tratta di un forte incentivo, e la portata delle misure è molto ampia: mediante le operazioni Tltro possiamo fornire liquiditá alle banche per quasi tremila miliardi di euro. Gli intermediari stanno facendo un grande ricorso alle nostre operazioni, e stanno fortemente aumentando il credito all’economia. Nel trimestre marzo-maggio la crescita dei prestiti alle imprese ha toccato il valore massimo dall’avvio della moneta unica: circa 250 miliardi per l’eurozona e 22 miliardi per l’Italia. E il credito viene concesso dalle banche a tassi molto bassi, in media inferiori all’1,5%.

Che rischi corrono le banche? Vede in prospettiva una nuova ondata di sofferenze?

Le banche partono da una condizione patrimoniale migliore rispetto al 2008, quando scoppiò la crisi finanziaria. Il rapporto tra capitale di migliore qualità e attività a rischio è pari a quasi il 15 per cento. Ma se la recessione dovesse protrarsi le banche si troverebbero a fronteggiare un forte deterioramento del rischio di credito e una riemersione dei prestiti deteriorati e inesigibili. Dobbiamo far ripartire l’economia rapidamente, prima di trovarci in quella situazione. Anche per questo motivo sono di fondamentale importanza le misure decise dalla Bce.

Alcuni commentatori si lamentano dei tassi bassi, che danneggerebbero i risparmi e metterebbero a rischio fondi pensione, assicurazioni, banche. Come se esistessero solo in Europa.

Ha ragione, i tassi bassi non sono un fenomeno europeo ma globale. Derivano soprattutto da fattori strutturali quali l’invecchiamento demografico, l’eccesso di risparmio rispetto alle opportunità d’investimento, l’insufficiente disponibilità di titoli a basso rischio. Nell’area dell’euro ha influito la bassa crescita, oltre che le politiche monetarie accomodanti legate all’andamento dell’inflazione. Ma immagini cosa sarebbe successo se la Bce non avesse adottato politiche monetarie espansive. La crescita e l’inflazione sarebbero crollate e il risparmio e gli intermediari avrebbero sofferto ben di più. E avrebbero sofferto soprattutto l’occupazione e i cittadini meno agiati.

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